lunedì 18 marzo 2013

Vecchigiovani vs giovanivecchi: le diverse facce della crisi



Tra un paio di mesi avrò 30 anni. Quando nel 1988 mia madre compiva 30 anni, aveva una figlia di 5 anni in grado di scrivere e formulare pensieri quali “questo evento ha lasciato una macchia indelebile sulla mia anima”. Io a 30 anni non solo non ho una figlia, ma nemmeno sono più in grado di formulare pensieri così profondi. A dimostrazione di questo sta il fatto che per scrivere queste 4 righe di merda, volgari e di banalità estrema, ci ho messo circa un quarto d'ora, mentre a 5 anni per scrivere quella frase ci misi meno di un minuto.
Fatto sta che compio 30 anni. 10 anni fa andava molto di moda parlare della crisi dei 30 anni. I trentenni dell'epoca venivano ritratti in ignobili film di Muccino & Co, con protagonisti attori del calibro di Accorsi & Co, che trattavano il quanto mai spinoso e controverso tema dei nuovi adulti che poverini volevano continuare ad avere 15 anni per sempre, ma non potevano.
Il dramma esistenziale da cui erano afflitti si può riassumere in due macro questioni, da cui poi possono snocciolarsi singole e svariate modalità di disperazione: cominciare a lavorare e sposarsi con chi hai/ti ha ingravidato. Insomma, smettere di farsi le canne, di ubriacarsi in discoteca, di strusciarsi con gli sconosciuti, di vomitare fuori dai locali, di fare le autogestioni a scuola. Ovviamente in pellicole di tale profondità sociologica, il passaggio da adolescenti ad adulti (che poi solo in quelle determinate condizioni storiche si verificava alla bella età di 30 anni) significava anche passaggio dalla vita spericolata all’imborghesimento.
E quindi insomma, un po' come gli amici al bar di Gino Paoli, questi giovani 30enni pieni di sogni e belle speranze, lentamente si trovavano costretti a cedere al richiamo delle responsabilità sociali e con desolazione, uno a uno, dopo aver fatto l'ultima cazzata della vita, deponevano la gioventù in un cassetto con la promessa di ritrovarla una volta all'anno per fare la rimpatriata estiva con gli amici/amiche e partire liberi da lavoro, coniugi, figli e affini per una Vacanza, un Viaggio, di quelli veri, di quelli che si usano nella contemporaneità, nei classici luoghi meta dell’italiano medio che sente le ali tarpate dalla routine e percepisce quella strana necessità di sentirsi libero e di sprigionare la propria energia cosmica….insomma quei luoghi come Cuba o Las Vegas o il Brasile…..lì sì che c’è aria di libertà….non la libertà inutile di pensare o di esprimersi, intendo la libertà di toccare culi e scopare moltissimo e ubriacarsi e drogarsi….insomma la libertà vera, quella che tocchi con mano, mica quella che pensi e basta. Per pensarla e basta non serve volare di certo fino a Cuba, eh.  Insomma, tematica quanto mai atavica, chiaramente esplicitata in epoca ben anteriore a questa generazione dei trentenni anno 00, dal detto: “Ad agosto moglie mia non ti conosco”.
Ecco, è abbastanza sconcertante pensare che 10 anni fa ci si potesse ancora occupare di questo tipo di problematiche. E' evidente che il declino era già segnato. Alla fine questi 30enni che non avevano voglia di diventare grandi, lo sono diventati per forza e per questi 10 anni, tra una vacanza e l'altra, hanno ridisegnato la società attuale. E noi ora, anziché la crisi dei 30 anni, ci ritroviamo la crisi punto.
Non so se ci sia stato un disegno dietro tutto, fatto sta che oggi la mia generazione ha da affrontare una crisi dei 30 anni del tutto opposta. In questi 10 anni le cose sono cambiate moltissimo.
Le due macro questioni esistenziali che deturpavano le anime dei trentenni anno 00, si sono auto risolte per la generazione anno 10, in quanto nessuno ha più lavoro e di conseguenza tutti se ne guardano bene dallo sposarsi e fare figli.
Proprio come era nei sogni di Accorsi e la sua banda, molti degli attuali 30enni continua a fare la vita di un adolescente che vive a casa con la mamma e che cerca il lavoro per l'estate cerchiando con il pennarello gli annunci sul giornale. La maggior parte per sembrare di non buttare via gli anni migliori continua a studiare. Studia tantissimo. Laura triennale, biennio specialistico, master, ecc ecc. E in questa adolescenza senza fine, continua ad avere notti prima degli esami anche a 33 anni, fa le manifestazioni, occupa le aule. Insomma fa lo studente. Ma senza un disegno o un progetto....solo per impiegare il tempo.
Poi va bè, a me viene difficile fare dei discorsi universalizzanti , perché non mi ritrovo per niente nella mia generazione e non conosco abbastanza persone da fare discorsi “statistici”….ma posso con quasi totale certezza affermare che la crisi punto è una menata ben più grande delle menate della crisi dei 30 anni.
I trentenni come me si sono stufati prima di quelli di 10 anni fa di partecipare alle feste e uscire strisciando sui gomiti. Cioè l'idea è sempre quella per cui se lo fai per trasgredire ad una routine è divertente, ma se lo fai tutti giorni potrebbe essere un problema che richiede l'intervento di qualche istituto preposto alla cura delle fasce deboli.
Quindi vivere da 15enni non ci soddisfa e molti di noi vorrebbero invece quella bella stabilità delle persone più mature, che hanno un lavoro, una casa, una macchina, dei figli. Ecco, se tutto ciò è imposto socialmente si è pronti a vomitarci sopra dopo aver baciato una diciottenne appena conosciuta, ma se ti viene imposto il contrario, ecco che siamo tutti pronti a guidare a 50 all’ora delle macchine familiari per recarci al lavoro di tutti i giorni, parcheggiando sempre nello stesso posto. Rincasando in un bel condominio, cucinandoci la cena, guardando la tivvù, facendo le lavatrici, leggendo prima di addormentarsi, restando fedeli al proprio partner, ecc ecc.
Insomma abbiamo la crisi di Accorsi, ma al contrario. La Crisi di Accorsi Inversa. Ecco.
Aneliamo alla mezza età, quando potremo riposarci in pantofole, guardando Gerry Scotti, senza l’ansia di gettare gli anni migliori davanti alla tivvù perché non si ha nulla di meglio da fare. Aneliamo al posto fisso. A tempo INDETERMINATO. Vogliamo che le cose non cambino più, che si stabilizzino. Vogliamo percepire lo stesso stipendio tutti i mesi, con la certezza di riceverlo. Vogliamo una casa da sentire nostra, e non un orrendo monolocale scalcinato pieno di immondizia come una casa studente, o peggio ancora vivere nella cameretta di quando eravamo piccoli, con ancora i peluche sulle mensole e i poster dei Nirvana attaccati al muro con lo scotch. Vogliamo sposarci con una persona e farci dei figli, prima di essere costretti a partorire a 60 anni, che Carmen Russo lo vediamo tutti come è e ce la fa, ma io personalmente davvero non me la sento. Vogliamo avere un prestito dalla banca da saldare noi in prima persona, senza che lo debbano fare i genitori al posto nostro, come quando facevi le medie che andavi con il nonno alla posta e ti apriva il libretto garantendo lui per te e mettendoci lui i soldi.
Insomma, vogliamo la mezza età.
Quando avevo 20 anni mi ero ripromessa che non avrei mai avuto la crisi dei 30 anni. L'ho sempre trovata davvero troppo infantile per una che a 5 anni aveva macchie indelebili sull'anima. Il destino ha voluto comunque contrassegnare questo periodo della mia vita con la parola “crisi”, anche se con una valenza completamente diversa. Una crisi planetaria, tra l’altro, non solo personale e generazionale.
Gli ex trentenni ora sono alle prese con la crisi di mezza età e relativo trauma, ovvero rimpianto per  tutto quello che hanno perso ora che non sono più giovani adulti, seguendo quindi lo stesso schema della crisi dei trent’anni, dovuta al senso di perdita di qualcosa di speciale legato ai loro 20 anni. In un certo senso la loro crisi è sempre dovuta dalla paura di perdere uno status di benessere nel quale vivevano, per rendersi conto il decennio successivo che anche negli anni appena trascorsi nei rimpianti di ciò che era, c’era qualcosa di positivo che si poteva perdere nei 10 anni dopo….e così via, vivendo continuamente nel passato e rinnegando la propria età naturale. E avanti, ora ci ritroviamo le milf coi loro toy boy, gli uomini canuti con le decapottabili sportive, e le solite vacanze a scopo sessuale (che quelle vanno bene ad ogni età, a patto di rimpiangere sempre la quantità di sesso che si faceva il decennio prima). E anche proseguendo negli anni, ci sono persone che non vogliono andare in pensione, ma lavorare per sempre. Che prendono il Viagra a 70 anni e muoiono di infarto. Anche loro, in qualche modo, anche se di generazioni diverse, vivono una crisi molto simile a quella dei trentenni anno 00.
Ora, invece, applicando la teoria della Crisi di Accorsi Inversa, la mia generazione vive la crisi del futuro, anziché quella del passato. Non ha la paura di essere troppo vecchia, ma di rimanere un’eterna bambocciona. Non ha paura di perdere quello che ha avuto, ma di non riuscire ad avere mai nulla. Abbiamo paura di ciò che ne sarà di noi, ecco, volendo smettere di essere ciò che siamo stati finora.
E non è difficile immaginare che la nostra crisi di mezz’età sarà contraddistinta da sogni perversi riguardo l’avere un giorno una pensione tutta nostra, più che da sogni erotici con toy boys efebici e scultorei.
Staremo a vedere. Per ora non posso che dire che sì, la crisi del vicino mi sembra più verde, ma anche penosamente ridicola. E quindi, piuttosto che l’Ultimo bacio, ben venga quest’ultimo schiaffo che la crisi punto ha dato alla mia generazione, e che per quanto ci faccia soffrire, almeno ci impedisce di fare troppe figure di merda.

sabato 2 marzo 2013

Aufklärung ad Alessandria

Triste ammetterlo, ma probabilmente la misantropia che mi contraddistingue non è solo merito mio e non è tutta farina del mio sacco. Non è qualcosa che ho da sempre.
Certo, fin da bambina piccolissima sono sempre stata solitaria e diffidente verso il prossimo. Non mi sono mai piaciute le situazioni di “gruppo” o di “branco”, ho sempre odiato giocare a palla prigioniera, ce l’hai o bandiera, e sono una maestra nell’inventare ogni tipo di scusa per evitare feste di compleanno, cene con i colleghi, battesimi, matrimoni, lauree, braciolate, merendini, evviva andiamo tutti insieme al fiume a fare il bagno, evviva andiamo tutti insieme in vacanza, evviva facciamo tutti insieme un campeggio, evviva sediamoci tutti insieme intorno al fuoco a raccontarci le cose…ecco…per carità, no. Tutti insieme no. Io e te e un altro al massimo ok, va bene, se proprio insistete. Ma se siamo più di 4 no guarda, facciamo un’altra volta che oggi ho avuto una giornataccia al lavoro e stasera non sono in gran forma chehomalditestamaldipanciaattacchidansia, ecc. E poi c’è Mistero, ma come faccio ad uscire, dai, anche voi….
Sì, ho sempre evitato i gruppi. I gruppi mi fanno tantissima paura. Perché lì tutti si sentono forti. Tranne me. Nei gruppi conta solo essere spigliati e divertenti. Io non sono molto spigliata. E nemmeno troppo divertente. E l’esserlo non è una di quelle cose come l’intelligenza, che puoi fare finta e magari non ti scoprono. No, o lo sei o non lo sei, e se non lo sei si vede. E più cerco di dire a me stessa di reagire, di prendere in mano la situazione e lasciarmi andare, più perdo il senso della realtà e mi estraneo completamente. Mi estraneo talmente tanto da non sentire nessuna voce e vedere nessun volto. Da non ricordare nessun avvenimento e nessun luogo in cui sono stata. L’unica soluzione è bere moltissimo. Ma non perché così mi lascio andare e ta-dà divento sciolta e simpatica, semplicemente perché così almeno sto male, vomito e mi portate a casa, per favore.
Devo dire che questo mio particolare modo di percepire il mondo non è vincolato necessariamente alle situazioni di socialità, ma è proprio peculiare del mio rapporto con la realtà.
Quando ero più giovane definivo questo mio modo di essere, una “spiccata capacità di astrazione”. Ora tendo a non volerlo definire per evitare di dare un nome clinico a qualcosa che fino a poco tempo fa era un grande pregio della mia mente.
Diciamo che a un certo punto mi sono resa conto di non essere mai esattamente nella realtà esperienziale, non solo del qui e ora, ma anche in generale. Non solo non vedo né percepisco quello che mi accade in questo momento, ma nemmeno ho completa percezione di elementi fisici che mi circondano per la maggior parte della giornata. Per esempio non saprei dire che taglio di capelli ha il mio miglior amico e nemmeno sarei in grado di affermare con certezza che il colore dei muri del palazzo in cui vivo è il beige (o grigino, o marrone, o bo, va bene, dai non lo so, inutile stare a girarci troppo intorno). Non è una questione di memoria. O di fisiognomica. E’ proprio una questione di concentrazione: io sono sempre e solo attenta a ciò che penso e null’altro. Mio malgrado vivo sempre rinchiusa nella mia mente. Che tra l’altro non è nemmeno un posto particolarmente accogliente e confortevole.
La realtà lo è molto di più. Quando mi impegno e cerco di percepirla, mi rendo conto che è molto più semplice di quello che sembra nella mia testa.
Un mio professore universitario, nonché scrittore di best sellers dell’ultimora, chiamava questa pratica “sega mentale”. E sosteneva che per essere felici bisognasse semplicemente smettere di pensare e vivere nella realtà. Nel qui ed ora. Esperire. Sentire. Toccare. Essere in contatto con il corpo e il mondo.
Io purtroppo non ci riesco. Sono la regina della masturbazione mentale. Non sono sinceramente nemmeno sicurissima di esserci nella realtà. Cioè, non sono proprio certa di essere vera. Di essere materiale. Di vivere. Né che ci sia un corpo e un mondo con cui stare in contatto. Porca troia, Cartesio mi capirebbe sicuramente. Penso che la mia vita sia tutta per intero una masturbazione mentale iniziata quando ho aperto gli occhi ed emesso il primo vagito. Certo, non so se è proprio masturbazione. Si vede che quel professore non frequentava molto la mia mente. La masturbazione è qualcosa di solitario e piacevole. La mia vita mentale non è esattamente così. Anzitutto non è piacevole. E poi, benché estraniata, è in relazione con il reale . E’ più come un rapporto sessuale con qualcuno che ti fa schifo, ecco. E’ quasi uno stupro, direi, almeno in certi momenti. Sì, la realtà mi stupra il cervello. Questa è la conclusione.
E diciamo che i Gary Ridgway e i Ted Bundy della mia mente sono le persone comuni. Loro mi seviziano, torturano, uccidono. Ogni giorno. A poco, a poco.
Ogni giorno vedo tantissime persone. Ogni giorno subisco una sevizia.
E queste sevizie, perpetuate nel tempo, hanno creato e alimentato la mia misantropia. Come una persona che molestata per anni, difficilmente trarrà mai piacere dal sesso, ecco.
La diffidenza verso il prossimo ce l’ho sempre avuta. Ma la misantropia no, è colpa vostra.
E’ la mia difesa.
Ecco, la mia misantropia è sbocciata negli anni, probabilmente dai semi della sociopatia, non so, prima fragile germoglio e poi robustissima piantaccia sempreverde e rampicante, tipo l’edera, che non la stacchi nemmeno a morire. La misantropia è come l’edera, s’attacca dove vuole.
A me si è attaccata e ormai non posso più farci niente. A volte mi impegno a sradicarla, perché penso, Ah chissà quante cose meravigliose potrebbero accadermi se aprissi il cuore al mondo, ma immediatamente l’edera si attorciglia intorno al mio collo, mi sento soffocare, stringe, stringe fortissimo, mi manca l’aria, aiuto devo uscire, un sorso d’acqua per favore, mi stendo un attimo con le gambe alzate, no, non vi preoccupate è solo un abbassamento di pressione, poi mi passa. E invece no, è il rampicante della misantropia che mi soffoca e mi fa venire gli attacchi di panico.
Però davvero io ci provo.
Nessuno che si iscriva alla facoltà di filosofia ci va da misantropo. Ci si iscrive perché si crede fortemente nell’umanità. Si crede nell’uomo, essere “superiore” perché pensante.
E’ il momento della vita in cui si è illuministi. Ottimisti. E si pensa che l’uomo abbia un dono incredibile. Il suo intelletto, la sua ragione, il libero arbitrio, la capacità di compiere scelte morali. E’ l’Aufkalrung.
La Storia dell’Uomo e la vita di un uomo seguono le stesse tappe, più o meno. E così ,dopo l’Illuminismo e il credere nel lume della ragione come fiaccola che illuminerà la storia, l’umanità, il progresso, e dopo una breve parentesi romantica di cui non vado molto fiera, ecco arrivare il mio Novecento, il mio nichilismo. Eccomi lì. Non so se ne uscirò. Non so se l’Uomo ne è uscito e ne uscirà mai.
Nichilismo e misantropia sono subentrati in maniera violenta da quando passo la maggior parte della mia vita ad Alessandria. Da quando ho un’edicola che mi porta a contatto con tutti i Ted Bundy dell’intelletto. La mia edicola è il ricettacolo del male. Davvero.
E grazie a voi, cari miei, ho perso la fiducia nella ragione. Nell’uomo. Nella morale.

Tu, quando hai baciato il giornale con la foto della Madonna distrutta durante la manifestazione degli Indignati a Roma, tu che eri disperata per come avessero conciato “la tua madonnina, o mio dio, cosa le avete fatto?” e hai posato le tue vecchie labbra a baciare la rappresentazione fotografica di una rappresentazione scultorea di una rappresentazione iconografica di una rappresentazione religiosa di una stupida idea come la madre di dio…..ecco in quel momento mi hai fatto più male di quello che i black block hanno fatto al tuo dio. Mi hai stuprato di nuovo la mente. Hai contribuito a terminare il mio  Aufklärung personale. Hai dato nuova linfa al mio rampicante misantropo. Mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, quando per diciottesimo, hai fatto la stessa “battuta” dicendomi “Vorrei un Piccolo e un Grande” ironizzando nella maniera più stupida possibile sul fatto che compri un quotidiano che si chiama Piccolo e un cazzo di giornale che si chiama Grandhotel e il tuo cervello ha fatto questo splendido ed esilarante collegamento, come gli altri 17 prima di te e come altri 51 dopo e come hai già fatto settimana scorsa insieme agli altri 73 e la settimana prima con i tuoi altri 58 amici comici. Ecco, anche tu hai contribuito ad uccidermi. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu che hai esaltato te stessa come se fossi un genio creativo perché un giorno “ho avuto un’illuminazione – bè, sentiamo, che ci sia un barlume di Aufklärung qui ad Alessandria? – “Cioè, non ci puoi credere, una cosa incredibile, una cosa che, cioè, mi ha detto: allora vedi il tuo cervello funziona ancora, è ancora brillante e geniale come da ragazza, sei ancora al passo con i tempi e trendy… Sono un vero e proprio genio: ho preso un pennarello rosso e uno nero e sono andata alla mia insegna MODACAPELLI e davanti con questi due strumenti ho CREATO: ho scritto I (pennarello nero) <3 (pennarello rosso) e così ora il mio negozio si chiama i <3 modacapelli (scritto in pennarello sull’insegna?! O__O). Cioè sono un genio vero?”
Ecco tu genio di sto cazzo hai contribuito a spegnere il lume della ragione dell’umanità. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Stampa Gaszeta. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Buongiorno per tutto il giorno. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, L’importante è la salute. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Metto un euro nel portafortuna. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Prendo i giornali di mio figlio – e quali sono? – eh non lo so se non lo sa lei, ma insomma dico io! Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Leggo solo telesette perché sono abituata. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, No, non ho soldi piccolo Paolo per prenderti i libri da leggere, ti dò un euro per le figurine. Ah aspetta che gioco i 49 euro di resto alle macchinette. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Prendo la cassetta di sanfrancesco – non è cassetta è dvd – ma come non è cassetta?! – eh ora ci sono i dvd – ma è lo stesso? – no – ma questo è troppo sottile per essere una cassetta – infatti è un dvd – vabbè lo prendo anche se non posso vedere i dividdì perché cmq è sanfrancesco - Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E ne avrei a centinaia di demoni come questi da evocare. Tutti i demoni della quotidianità.
Tutti protagonisti di piccoli eventi volti a scalfire man mano quel po’ di Aufklärung personale che conservo nel cuore. Tutto questo male reale è la realtà che mi rimane. E’ la realtà della normalità, delle persone. Ecco perché fuggo. Ecco perché sono meglio le seghe mentali. Ecco perché “ho una spiccata capacità d’astrazione” volta ormai in patologia.
Mi spiace cari miei, non so da voi, ma qui di  Aufklärung non se ne vede….
Ho solo centinaia di aguzzini pronti a torturarmi. E io sono qui ad aspettare che la mia misantropia si trasformi un giorno in sindrome di Stoccolma, sperando così di soffrire un po’ di meno.

lunedì 24 dicembre 2012

Imperativi per scampare o, almeno, arrivare pronti al proprio suicidio



Tieni sempre a mente gli errori fatti, ripetili nella tua mente uno dietro l’altro, senza aspettarti di trovare conforto e comprensione in nessuno. 

Abituati al fallimento.

Concentrati sulle cose semplici, sul fare la spesa, sul portare il cane al parco, sul cucinare qualcosa.

Risolvi situazioni banali per sentirti ancora in grado di fare qualcosa.

Cerca di recuperare un’amicizia deteriorata dalle delusioni. 

Vinci la solitudine uscendo con le persone anche se non ti piacciono. 

Trova conforto in una chat con chi non hai mai nemmeno guardato negli occhi e che anche se stai piangendo non lo sa. 

Cerca di recuperare quello che fino a 5 anni fa ti rendeva felice e ti dava uno scopo. 

Impegnati affinché quello che hai sia abbastanza. 

Fai elenchi di cose per cercare di mantenere il controllo.

Mantieni il controllo.

Ragiona per punti e datti obiettivi ed imperativi.

Non perdere il ritmo.

Non perdere la concentrazione.

Mangia, bevi e dormi con regolarità.

Ricordati le medicine.

Non lasciare che nessuno comprenda a pieno le tue preoccupazioni e che nessuno sia davvero cosciente di quanto è profondo e buio il buco nel quale stai precipitando.

Allenati al pensiero di non esistere più.

Mostrati forte, sorridente, positivo.

Non mostrare il fianco, non fidarti di nessuno, cammina con spalle dritte e testa alta.

Ricerca le tue giustificazioni nel dare conforto agli altri, ma non aspettarti conforto da nessuno.

Tieni sempre a mente che stai precipitando, e quindi tienti pronto all’impatto.

Nel frattempo cerca appigli, cose semplici, che attutiscano la caduta, magari una cena con chi ami o un tè caldo con una amica.

Progetta qualcosa di nuovo e cerca di crederci ancora.

Non avere aspettative elevate.

Mantieni sempre addosso questa maschera, cosicché dietro di essa tu possa startene rintanato e al sicuro, dove nessuno può vederti.

E lì dietro, lascia che succeda di tutto…tagliati, guarda scorrere il sangue, insultati, suicidati, fai delle stragi.

Allenati ancora al pensiero di non esistere più.

E fino a che avrai questa maschera sorridente sulla faccia e una buca di cento metri sotto i piedi, vuol dire che sei ancora vivo. Inizia a preoccuparti quando la maschera cadrà, perché probabilmente significa hai toccato il fondo della buca.

A questo punto, cerca un’arma.

Assicurati che sia efficiente, funzionante e completa.

Davanti alla specchio.

Guardati negli occhi.

Senza rimpianti e senza rimorsi.

giovedì 19 aprile 2012

La più che sostenibile leggerezza dell'essere un peso per gli altri


La primavera è arrivata volando sulle ali dell’Alprazolam. E’ planata un giorno in giardino e mi ha colto nella solita disperazione esistenziale di chi vive nella condanna dell’insoddisfazione data da aspettative esageratamente elevate rispetto alle proprie possibilità.
La primavera ha deciso per me che è arrivato il tempo delle pulizie. Ovviamente non parlo di pulizie domestiche, che dio me ne scampi. Parlo di eliminare il superfluo.
Le prime cose totalmente inutili di cui intendo sbarazzarmi sono la mia ostinazione e il mio rigore. Basta! Voglio vivere da debosciata. Smettere di lavorare. Farmi mantenere da qualcuno. Lamentarmi tantissimo di tutto. Lamentarmi su Facebook della mia esistenza inutile e vuota. Ubriacarmi e pubblicare le foto mentre vomito e prendere 289 mi piace da tutti quei coglioni che, mentre ero ripiegata sul cesso il martedì sera, stavano andando a riposare con già l’ansia della giornata lavorativa successiva.
Lamentarmi che non ho i soldi e farmi pagare le cose da tutti. Soprattutto da quelli che, non avendo di meglio da fare, quei soldi se li sono pure guadagnati.
“Eeeeeh, beati voi che lavorate. Io stasera non posso nemmeno permettermi una birretta…. (ndr: ovviamente si deve usare proprio il termine birretta, perché il fatto di farla apparire come una cosa piccola e carina utilizzando un vezzeggiativo, porta l’interlocutore a farsi maggiormente ingannare e a cadere nella trappola che gli sto sagacemente tendendo…se chiedessi una birrona lo spaventerei, chissà quanto costa una birrona…sempre uguale, tanto mi prendo comunque una media delle più care, perché a me, adesso che sono mantenuta, povera ma esistenzialista, piace solo la birra artigianale irlandese fermentata nelle botti medievali di sta minchia e imbottigliata nel vetro di murano di sto cazzo)… Certo, esco tutte le sere, anche quando voi state a casa perché l’indomani vi tocca sbattervi, ed efettivamente sì, sono sempre in giro per locali, mentre voi risparmiate facendo la spesa alla LIDL, ma, non si capisce come mai, sono povera. Stasera mi sa che non ho nemmeno i soldi per una BIRRETTA…. Ma no dai, non posso accettare…. Vabbè però se insisti…. Ti ringrazio. Poi appena troverò lavoro mi sdebiterò” (eheh, certo, visto che la mia prospettiva è di non lavorare mai più).
Voglio chiedere i sussidi al Comune per qualcosa. Non so, perché sono povera, perché sono triste, perché non sono integrata, perché sono depressa. Insomma per qualcosa. Voglio essere un peso sociale. Sì. Una 28enne che potrebbe lavorare, ma che siccome c’ha l’animo ipersensibile da artista maledetta non ce la fa a piegarsi e allora si fa mantenere dalle tasse di tutte quelle persone grigie e incasellate, che disprezza.
Bè certo. Voglio essere un peso sociale e lamentarmi tantissimo di tutto. Del fatto che non lavoro. Del fatto che non ho una casa mia. Voglio essere libera di stare malissimo.
E poi sbarazzarmi della forza di volontà. Basta essere volenterosa. D’ora in avanti non vorrò più niente. Non voglio più impegnarmi in niente. Lasciarmi andare. Non reagire più. Diventare debole. Di quelle persone di cui dicono No dai poverina, non facciamole del male perché è fragile. Esatto. Voglio essere fragile. Essere accudita. Trattata con più cura delle altre persone perché magari potrei reagire male. No, non diamole questa notizia che magari poverina ci resta male e fa una stupidata. Ecco sì. Fare le stupidate.
Tipo, non so, infilarmi nella vasca da bagno, tagliarmi le vene (ma appena appena però, perchè ovviamente ora sono più attaccata alla vita che mai, dato che sono debosciata e faccio il cazzo che voglio, anche se  dico che voglio morire sempre) telefonare ad un’amica per dirle Aiuto, mi sono tagliata le vene perché la mia vita fa schifo. Aiutami tu, ti prego. E gettarla nel panico. Farla viaggiare in macchina col cuore in gola, in piena notte anche se l’indomani lavora. Farla arrivare. Piangere sulla sua spalla. Farmi fare la camomilla. Ringraziarla. Scusarmi fingendomi umiliata di averla disturbata in piena notte. E andare a dormire. Senza pensieri. E mentre la mia amica ancora preoccupata si sveglia il mattino dopo alle 6.30 con le occhiaie e le lacrime seccate, perché ha pianto per me, e i vestiti che non si è stata a togliere tanto dopo poche ore andava a lavorare, svegliarmi bella riposata verso mezzogiorno e mezza, postare le foto su Facebook con le garze sui polsi e prendere751 mi piace e scrivere un bello stato ironico, ma con retrogusto “finto” amaro, su quanto sono profondamente depressa a causa della mia intelligenza sopra la media che mi porta ad essere esclusa dalla società. E ad odiare tutti. Soprattutto chi è ordinario e lavora. Come la mia amica.
Oh ecco. E poi voglio sbarazzarmi della mia dignità. E basta con sta storia che devi camminare a testa alta, che devi essere fiera davanti allo specchio ecc. Ma checazzomenefrega. Basta. Troppo faticoso. Camminare troppo dritti è un inutile sforzo. Meglio piegarsi un pochetto. Adottare quell’andatura un po’ svogliata del non c’ho voglia di fare un cazzo, non mi rompete i coglioni. Ecco, l’andatura comunista da centro sociale. E poi andare in piazza a dire Voi politici ci togliete la dignità. Sì, ecco, mi farò i piercing alle gengive e andrò ai colloqui di lavoro vestita da puttana con le svastiche tatuate sulle zinne, puzzando di alcol a buon mercato, per poi uscire disoccupata e incazzarmi con il sistema che non mi accetta per quello che sono, così sopra la media. Che non accetta i miei piercing alle gengive. Bastardi fascisti. O comunisti. O bo.
E poi sbarazzarmi del senso di responsabilità. E dell’affidabilità. D’ora in poi sarò un ramoscello al vento. Non contate su di me, non so se ci sarò. Ah per voi è importante, ma a me non me ne frega, perché ho perso il rispetto per gli altri. Già. Ora penso a me.  Non so a che ora arrivo. Non so quando e se torno. Non so dove dormirò. Non mi interessa perché sono poeta maledetta ed esistenzialista. Ora vado a bermi l’assenzio comprato dalla mamma all’esselunga, in riva ad un fiume da sola con l’Ipod. E vi metto la foto su Facebook.  Mamma mia quanto sono figa.
La primavera volando sulle ali dell’Alprazolam mi ha portato venti di saggezza e insieme al cielo ha schiarito i miei pensieri. Sulla mia vita. Su chi mi circonda. Spero che volando dai miei coetanei abbia portato a qualcuno l’intenzione di cominciare a sbattersi, visto che io ho finito di farlo e qualcuno dovrà pur mantenermi adesso.
Benvenuta primavera, ci si sente così leggeri quando si decide di buttare tutto il peso delle responsabilità sugli altri. E io ora sono leggera leggera. Ma essendo che ancora i miei pesi me li carico da sola, evidentemente è tutto merito dell’Alprazolam.

mercoledì 29 febbraio 2012

Il bene dei poveretti


Le persone che mi capita di incontrare quotidianamente costituiscono il tessuto di una città profondamente e sordidamente malvagia.
La mediocrità che sono costretta a subire infetta la mia vita e la mia giornata, costellandola di episodi e chiacchiere inutili, volte sempre ad una malvagità mediocre ma feroce, fatta di pettegolezzi, invidie, ripicche, falsità e malumori. Una malvagità che non si estrinseca in gesti esemplari, da poter identificare e additare facilmente. Un tipo di male particolare, che si insinua nella profondità della gente comune portandola ad essere più contenta per una disgrazia altrui che per un lieto evento. Un po’ il male radicale di Kant, via. Un male basso. Senza fantasia. Senza coraggio. Misantropo, ma trattenuto nei ranghi del perbenismo e della rispettabilità. Della facciata da brave persone, in cui seno serpeggia però il male. Il male qualunque. Il male quotidiano. Il male represso. Il male nascosto. Il male banale. Il male dei poveretti.
E vivere a contatto con il male dei poveretti è alquanto faticoso. Il senso di nausea talvolta mi attanaglia e torce le budella. Mi fa erigere muri di incomunicabilità, che mi salvaguardano dalle bassezze umane. E che mi isolano da questo posto. Sono immune all’invidia. Alla chiacchiera. Al pettegolezzo. A quel senso malato e angosciante di sadica superiorità di fronte al dolore altrui. Mi proteggo in ogni modo dal serpeggiare del male dei poveretti, mi guardo costantemente le spalle, cerco di non dare confidenza. Mi mantengo sempre superiore. E non è facile in una città in cui anche i muri puzzano di malignità. In cui tutti i cittadini sono dei poveretti. E dei malvagi.
Però di fronte a questa minaccia ho imparato ad erigere delle barriere e delle protezioni. E per quanto il male dei poveretti sia nauseante, mai mi sarei aspettata l’irruzione nella mia vita di qualcosa che avrebbe potuto farmi ricredere sul mio giudizio che catalogava il male dei poveretti come la peggior piaga che affligge l’intelletto, lo spirito e l’intera umanità.
E invece, inaspettatamente, ben peggio del male dei poveretti, un bel giorno mi sono trovata di fronte al bene dei poveretti.
Anzitutto il bene dei poveretti, al contrario del male, non è equamente e mediamente distribuito all’interno di migliaia di individui che popolano questa città. No. E’ tutto completamente concentrato in un unico individuo, che ne contiene quindi una dose concentratissima ed insopportabile. Ed essendo l’unico portatore di tale viscido principio, egli si identifica totalmente con esso, non avendo alcuna individualità altra. Il bene dei poveretti e questo individuo sono la stessa cosa. Mai avevo percepito tale principio scisso da tale individuo e mai potrò percepire tale individuo scisso dal suo principio.
Il bene dei poveretti mi si è presentato togliendosi il cappello di pezza sgualcita blu del nonno di Pollyanna, che indossa sempre, e facendo un piccolo inchino. Talvolta arriva quasi a genuflettersi.
Le prime parole che pronuncia sono sempre buongiorno (e fin qui ok) e scusa e grazie. Anzi scusi e la ringrazio, se non addirittura scusate e vi ringrazio. Le pronuncia di fila, così, a cazzo, senza ragione. Appena entra: Buongiorno scusi la ringrazio. E poi per tutto il tempo rimane lì, a capo chino, strizzando tra le mani il cappello.
La sua bontà è talmente elevata che dà un senso di nausea profondo ed indicibile. Ti fa tremare le ginocchia. Non c’è falsità nei suoi modi così esasperatamente gentili. Sono sinceri. Sempre. Il timore reverenziale e il rispetto esagerato che nutre verso qualunque individuo è assolutamente autentico e profondo. Il suo bene non si estrinseca in atti buoni di particolare valore o rarità, non va in Africa a curare i bambini o cose simili. Lui vive nel suo essere semplice e poveretto una bontà che non è magnifica e accecante, ma nemmeno volta alla gloria personale e al riconoscimento altrui. Lui ha una bontà banale, scontata, vuota, semplice, povera. Esattamente come è lui. Anche se si cerca di gettare il seme del male e dell’odio nel suo animo, non si hanno risultati, ma solo stupefacenti riscontri dell’invincibilità di tale principio contro qualunque tentativo di corruzione.
Ho cercato diverse volte di rivolgermi a lui dandogli del tu, per esempio, ma senza mai scalfire la sua sicurezza nel rivolgersi a me dandomi del Lei o del Voi. Ho cercato di fare battute ironiche, ma nell’ironia lui vede serpeggiare il male e non la accetta, non la capisce. Il suo sorriso costante non è un sorriso beato, né felice, né ironico. E’ il triste sorriso della povertà. Della povertà buona. Della povertà di Pollyanna, della piccola fiammiferaia, della famiglia del Natale presente di A Christmas carol che fa ricredere anche Scrooge sulla propria malvagità.
Anche lui ha una famiglia. Povera. Senza televisione. Senza riscaldamento. Hanno comprato solo la radio perché adesso fanno la collezione della favole per la loro bambina e dentro c’è anche il cd…Collezione della quale la bambina noterà, in età più avanzata, mancare un unico numero: il 6, perché la storia di Barbablu non gliel’ha voluta prendere. Lì c’è un po’ di male. E nemmeno io mi fido più tanto di leggerla adesso.
Quando l’intera famiglia si presenta al mio cospetto, sembra di ritornare indietro di cento anni o di essere catapultati in una parabola biblica. In uno di quei luoghi comuni per cui il bene deve essere per forza fatto così. Come ce lo immaginiamo da sempre. Da quando eravamo piccoli e guardavamo La casa nella prateria.
Mai avrei pensato però che tale idea totalmente astratta e immaginaria, nonché fastidiosa per l’essere umano adulto mediamente intelligente, che disprezza tale concentrato di banalità e luoghi comuni, potesse esistere in carne ed ossa. E soprattutto qui, ad Alessandria, dove da sempre regna il male e si vede.
E invece proprio qui vive l’idiota di Dostojeski. Il bene perfetto che Kant pensava fosse idealmente raggiunto solo in Cristo, ma che invece no. E’ qui. E non fa i miracoli. Contro la bassezza del male qualunque, del male radicale, non poteva che esistere questo. Il bene dei poveretti. Altro che Cristo e i Santi e Madre Teresa e Gandhi.
Io il bene lo vedo solo in lui, e mi fa talmente ribrezzo che ormai sono totalmente votata al male e a Satana. Vi assicuro che ho conosciuto molti satanisti e tutti molto meno inquietanti di questo individuo. Lo vedo vivere in una casa di pietra, con il camino, e la legna da ardere. Che mangia la zuppa marrone con il pane nero ogni sera. Che al piano di sopra ha il nonno ammalato. Che fa giocare la bimba con le caprette o lanciandola in alto con sullo fondo il cielo azzurro e il prato verde. Che prende l’acqua nei secchi dal pozzetto di legno vicino a casa. Che ha la moglie che tossisce sempre e un giorno vedrà del sangue nel fazzoletto. Che ha la bambina con i riccioli biondi che non sa chi è Maria De Filippi. Che legge Famiglia Cristiana. Orfano. Analfabeta. Senza lavoro. Umiliato dai ricchi cattivi che lo fanno lavorare e lo sfruttano e lo frustano. Ma lui resiste per la sua famiglia e arriva la sera a casa con in spalla una fascina di grano da cui sua moglie, casalinga e sempre con il grembiule sopra l’abito lungo fino ai piedi un po’ a palloncino, fa il pane infarinandosi leggermente il naso, dettaglio che sotto i capelli un po’ spettinati la rende bellissima ai suoi occhi (soprattutto rispetto alla cattivissima figlia del suo capo, bionda ed elegantissima, truccata e con un neo vicino alla bocca che pur essendo bellissima è malvagia e lui la trova quindi ripugnante e fastidiosa). Che anche se è povero, fa l’elemosina ad un ubriacone al lato della strada dandogli una grossissima moneta grigia che è la sua paga della giornata. Che legge le fiabe alla bimba (ma non Barbablu) anche se è stanco dal lavoro. Che prega prima di cenare. Che santifica le feste con semplicità e senza fronzoli consumistici che non si può permettere e che incarnano il demonio.
Insomma, eccolo qui il bene dei poveretti. E sì, vi assicuro, è intollerabile. Talmente dolce e mieloso che dà la nausea. Talmente poveretto che ti fa stare male. Perché non può esistere davvero. E invece è lì. E tu non ti senti come Scrooge che decide di diventare buono, no, tu ti senti come Panzram e nella tua testa ripeti solo "I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them" (in inglese perchè, anche se nella tua mente, speri che il messaggio raggiunga più persone possibili).
E quindi, sì, alla fine scegli il male. Ma siccome non sei poveretta, scegli il male che più male non si può. E quando sei lì lì pronta per passare dal pensiero all’azione e impugnare le armi, l’unica cosa che può fermarti è leggere Peter Sotos con in sottofondo Nicole 12 e sullo schermo della tv August underground. E così ti riconcili con la meravigliosa e rassicurante brutalità del mondo. In questo modo, con una certa dose di male legale, esorcizzi quel bene che ti ha subdolamente infettato, e puoi ritornare ad essere più o meno normale.

giovedì 16 febbraio 2012

Alcuni metodi (abbastanza inefficaci) per sopravvivere a me stessa

 Per la serie: guarda un po’ cosa ti vado a scoprire alla bell’età di 28 anni! Ho infatti appreso solo in questi mesi che quella che pensavo essere pressione bassa era invece agorafobia. E che quelli che definivo cali di zuccheri erano invece attacchi di panico.
A compensare queste sconcertanti rivelazioni, ho anche appreso che quella che definivo ansia in realtà era felicità. E quella che credevo serenità, era noia.
Comunque, al di là della confusione che ho a livello emozionale, sempre che io possegga un livello emozionale, avendo scoperto di soffrire di attacchi di panico, ho mio malgrado cercato dei rimedi per superarli, in quanto sono povera e i poveri se la devono, come sempre, sbrigare da soli. Soprattutto se vivono in posti in cui la psicologia ha la stessa rilevanza sociale dell’alchimia, per cui gli psicologi vengono visti come strani maghetti che fanno le cose con la mente. E se tu, povera, vuoi usufruire di uno psicologo del servizio pubblico, devi comunque passare da altri 6 o 7 medici prima, tanto per essere sicuri di conoscere tutti il mostro che cerca un sostegno proprio da quello lì che fa le cose con la mente e che non è invece un uomo di scienza come loro. E poi ovviamente diffondere il tuo identikit. Quindi, come sono solita fare, mi sono arrangiata e rimboccata le maniche per fare a modo mio.
Devo dire che in realtà gli attacchi di panico non li ho per niente vinti. Tuttavia sono diventata invincibile nell’evitare le situazioni che li possono causare, il che per una povera psicopatica è già un ottimo traguardo.  E questo per me non è tanto un limite a quello che vorrei fare, quanto un problema organizzativo.
Allora, essendo che non posso evitare tutti i luoghi pubblici, anche se per me sarebbe un sogno, ho creato una personale classifica dei posti ok, quelli ok da ubriaca, quelli ok se accompagnata, quelli ok ma fingendomi morta e quelli assolutamente no mio dio ti prego.
Non so bene in base a cosa un posto finisca in una categoria piuttosto che in un’altra, però mi sono fatta coraggio e, per capirlo, ho iniziato a frequentare tutti i posti possibili e immaginabili che potrei frequentare in tutta la vita, per poter empiricamente e a posteriori inserire ogni luogo in una tipologia precisa e sapere, di conseguenza, come comportarmi. Da quanto analizzato, e vi assicuro, è stato un lavoro davvero lungo e faticoso, ho appreso che il posto peggiore per me rimane la posta. Lì, in una frequentazione di due giorni consecutivi, in cui mi sono inventata commissioni e raccomandate che in realtà non esistevano, ho collezionato ben due collassi. Uno senza nemmeno riuscire a raggiungere l’uscita. Con il conseguente allarme da parte di tutti i presenti che a fatica ho convinto a non chiamare un’ambulanza. Ho detto la solita cosa della pressione bassa, ed è sembrato andare bene.
Quindi in posta non ci posso assolutamente andare. Tuttavia è facile delegare qualcuno, quindi non è un grosso problema. Banca vado bene accompagnata. Mezzi pubblici niet.  Quelli mai, ma tanto c’ho la macchina. La macchina ok, anche in coda. Concerti sì, se accompagnata e ubriaca. Cene con amici e parenti sì, ma fingendomi morta. Veterinario no. Ospedale assolutamente no. Soprattutto durante operazioni chirurgiche. Ho infatti deciso per testare la mia resistenza durante un ipotetico intervento, di farmi asportare chirurgicamente un neo sulla schiena. Benissimo, sono collassata anche se ero sdraiata e avevo la mascherina dell’ossigeno. E non è per impressione del sangue, dei tagli, delle cose. Chi mi conosce sa che invece apprezzo molto il genere. Quindi se dovessi aver bisogno di andare in ospedale per qualche motivo non potrò fare altro che lasciarmi morire a casa. Vabbè, per ora sono giovane e forte. Spero di trovare una valida soluzione entro la mezz’età, che è lì che cominciano i problemi.
Negozi affollati no. Altrimenti vado bene anche da sola. Supermercati vado bene accompagnata, ma solo se ci sono già stata in precedenza. Mostre, musei, et similia sono una sofferenza, ma devo per forza frequentarli, non come gli ospedali che se mai mi lascio morire. Lì resisto solo se faccio un giro di perlustrazione iniziale che mi consente di individuare le vie d’uscita. Sagre di paese, solo se ubriaca tanto da potermi fingere morta.
Analizzando quindi le categorie iniziali, si può notare che la maggior parte dei luoghi posso affrontarli da ubriaca o accompagnata. Diciamo che quindi la mia personale cura contro gli attacchi di panico consiste nell’alcol e nell’avere qualcuno con cui instaurare un rapporto di dipendenza e morbosità tale da non potersi quasi mai separare, qualcuno abbastanza paziente da accompagnarti in tutti i posti appartenenti alla relativa categoria. Fortunatamente a 16 anni mi sono portata avanti con il lavoro, iniziando a bere le cose peggiori del mondo, che mi hanno spappolato lo stomaco rendendomi praticamente intollerante all’alcol (questo ovviamente è un bene, perché basta pochissimo per sbronzarmi e stare male ^^), e soprattutto conoscendo il ragazzo che sarebbe diventato l’uomo che ho sposato. Quindi non sono arrivata a 28 anni del tutto sprovveduta, ma avendo già alcol e rapporto morboso come sicuro salvagente della mia vita. E infatti, checché ne dicano, sono cose che mi sono tornate utili.
Per quanto riguarda l’ansia, anche quella ho imparato a combatterla empiricamente, accendendo la tivvù. NON INTERNET, perché la sociopatia la accuso anche a livello virtuale e se accendo il computer vengo inspiegabilmente sempre ingoiata da fb che mi provoca attacchi di panico, proprio come se fossi in una piazza gremita.
E sempre in tema di ansia, in questo periodo ho fatto un’altra eccezionale scoperta, come accennavo all’inizio. E’ stata proprio un’illuminazione che mi ha colto di sorpresa un mattino appena sveglia: spalanco gli occhi con la tachicardia e dico, no cazzo mi sveglio già con l’ansia… Poi mi fermo a pensare e capisco che non è ansia. E’ tipo, non so bene come dire, forse, bo, emozione. Cioè emozione è generico, perché le emozioni possono essere infinite…ma quella era proprio emozione di quando uno dice sono emozionato. Cioè qualcosa di felice. Di gioioso. Cazzo. Infatti sto passando uno dei periodi più belli della mia vita e quindi ha più senso che mi svegli felice piuttosto che ansiosa.
Purtroppo faccio ancora tantissima fatica a distinguere l’ansia dalla felicità, non so come faccia la gente normale a capirlo in automatico. Comunque, devo dire che questo mi ha portato a riconsiderare una serie di aspetti della mia vita e del mio spirito. In primis ho dovuto ammettere che, contro ogni aspettativa, io in realtà non sono una persona depressa e con un’innata tendenza al suicidio e al disprezzo della vita, bensì sono una persona FELICE, molto felice. Pensavo ansiosa. E invece no. FELICE. Cazzo. E pensare che ho sempre fatto di tutto per negarlo. Cioè la felicità fa un po’ anche povertà mentale. Almeno credevo così.
Comunque non sono proprio certa dei risultati di questa nuova impostazione mentale. Devo ancora trovare un metodo empirico che mi consenta di distinguere uno stato dall’altro con assoluta certezza. Chi mi conosce un po’ si accorge facilmente di tale differenza dal colore della mia pelle, che cambia moltissimo a seconda del mio umore, dal mio grado di loquacità, dalla frequenza del turpiloquio e dagli occhi che mi cominciano a girare tantissimo quando vengo attanagliata dai miei strani e oscuri pensieri.
Tendenzialmente l’unica discriminante che sono riuscita a trovare è che quando provo degli stati emotivi negativi, come ansia e depressione, sono naturalmente attratta dal black metal, che mi mette sempre di buonissimo umore. Però non è proprio un metodo scientifico esatto, perché il black metal è curativo per tantissime altre cose, tipo il freddo dell’inverno o guidare con la nebbia. Quindi, vabbè, per capire la felicità devo ancora sperimentarla per un po’. Ma fortunatamente, sempre che non debba improvvisamente recarmi in ospedale per qualche motivo, il che appunto significherebbe dovermi lasciare morire, la mia vita dovrebbe essere ancora abbastanza lunga e probabilmente anche felice da consentirmi di trovare un metodo scientifico anche per queste nuove ed impenetrabili categorizzazioni. O se no basta ascoltare un po’ di black metal ogni giorno, che funziona un po’ come la mela che tiene lontano il medico, ma con gli psicologi e i mali dell’anima. Che sia felice o disperata, quello non fa mai male e un sorriso me lo ridà sempre.

venerdì 20 gennaio 2012

Festeggiare le feste

I mirabolanti giorni di festa si sono “ahimè” conclusi. Prima che la mia faccia riprenda la sua forma normale, dopo che è stata obbligata a mantenere un sorriso di gomma per le ultime tre settimane, ci vorrà un po’ di tempo. Come il materasso memory che si ricorda la tua forma e se lo schiacci con la mano prima che ritorni normale ci va un po’.
Comunque meno male, dai, l’obbligo di festeggiare le feste è stato adempito anche per quest’anno. E finalmente posso tornare a fare il cazzo che voglio senza dover rendere conto a nessuno della noia che mi mettono i brindisi, le decorazioni, le luci di Natale, gli auguri, le musiche natalizie, i botti di Capodanno, ecc ecc ecc.
Posso riporre il mio sorriso di circostanza insieme alle mutande rosse in fondo al cassetto della disperazione che non verrà riaperto fino all’anno prossimo. Cioè oddio, il sorriso di circostanza è meglio conservarlo tra le mutande di tutti i giorni da mettere in negozio, perché non vorrei mai dimenticarlo a casa durante un giorno di apertura, se no che figura ci farei con i clienti…
Devo dire che le feste per me sono un po’ dolciamare come la canzone di Barbara D’Urso.
Più precisamente: Natale e Santo Stefano = amarezza. 27, 28, 29, 30 = insipidità con retrogusto amarognolo misto ad ansia da prestazione per la notte di Capodanno, nonché ansia dovuta all’organizzazione della serata stessa. 31 = picco di amarezza. 1 = picco di amarezza a cui si somma la nausea e il post sbronza personale e di chi ti sta vicino. Dal 2 = dolcezza mista a fancazzismo, nichilismo, misantropia, autolesionismo e depressione post traumatica.
Qualche anno fa il problema più grande per me risiedeva nei rapporti con i parenti, che pur non esistendo od essendo di un’aridità sconvolgente, rispuntavano magicamente sotto Natale, come il muschio secco del presepe, dietro l’albero di Natale con le palle che cadono. Tanto per dare un’immagine figurata della freschezza e genuinità di tali rapporti.
Devo dire però che con il tempo i parenti si sono estremamente diradati. Un po’ di loro sono morti. Un po’ si sono stufati del mio cinismo. Un po’ hanno trovato sconveniente fare gli auguri di Natale all’unica satanista dichiarata della famiglia (in realtà lo divento il 24 dicembre di ogni anno e cesso di esserlo il 7 gennaio). Insomma il satanismo delle feste, la mia scarsa loquacità telefonica, la difficoltà a rispettare le tradizioni e il ciclo della vita hanno scremato attentamente una rosa di parenti che in realtà non è mai stata nemmeno troppo rigogliosa. E così a Natale è stato tutto molto semplice. Genitori e poco più. 
In negozio la cosa si è complicata un po’. Ma devo dire che lo spirito necrofilo alessandrino porta più gioia il 2 novembre rispetto al 25 dicembre. Sempre meglio festeggiare molti morti piuttosto che una nascita, anche solo per una questione quantitativa. E quindi ci siamo fatti un po’ di auguri, ho ricevuto qualche panettone Motta, qualche spumante Rocca dei forti, e un portaqualcosa a forma di cuore in ceramica finissima con tutti i fiori orribili sopra.
Quando poi mi sono stufata di dire a tutti auguri intorno al 22 dicembre (chissà perché si deve cominciare con tanto anticipo, mica è una di quelle cose con cui è meglio portarsi avanti!) ho messo un bel cartello con scritto auguri a tutti e mi bastava fare un cenno con il capo per ricambiare. Cercare di limitare i dialoghi è un’arte che si impara negli anni e ormai io ne sono maestra.
Quindi è per questi motivi che la giornata peggiore del festeggiamento delle feste risulta essere il Capodanno. Anzitutto a Capodanno si deve per forza fare qualcosa. E questo per me è un problema. Metti che ho mal di testa. Metti che ho l’influenza. Metti che sono di pessimo umore. Metti che voglio stare per i cazzi miei. Metti che non ho voglia di bere. Metti che non ho fame. Metti che non ho voglia di ridere. No, non posso. Devo per forza festeggiare la festa. E questo mi fa venire mal di testa, anche un po’ di influenza, mi mette di pessimo umore, mi spinge a voler stare da sola, mi toglie fame, sete e voglia di ridere. E quindi ogni Capodanno per me è così. Da sempre.
Purtroppo io me ne starei a casa da sola al buio a piangere, ma non posso perché sono sposata con Mister Re della festa. E siccome abbiamo sviluppato negli anni un rapporto simbiotico e morboso che ci impedisce di separarci anche solo per una sera, e siccome a Capodanno, nella solita sfida dialettica tra chi vuole uscire e fare cose e chi vuole morire, tende a vincere lui, ecco che da anni a Capodanno ci si vede con gli amici. Non che si faccia chissà cosa. Ma è proprio l’idea di dover essere felice che mi rattrista. Non posso farci niente, è più forte di me. E’ anche l’unico giorno dell’anno in cui se mi ubriaco divento triste. Anzi, peggio: è l’unico giorno dell’anno in cui incredibilmente reggo l’alcol, per cui mi dico “quest’anno alle 16 devo essere già sbronza” così magari da collassare in bagno prima di mezzanotte, e invece mi ritrovo l’unica perfettamente lucida alle 5 del mattino. Spossata dal sonno e soprattutto dalla noia di vedere cose che fanno molto ridere se sei ubriaco e molta tristezza se sei lucido. Anche perché so benissimo che mentre tutti si dimenticheranno quei momenti e saranno salvati dalla dolcezza dell’oblio,  io sarò destinata a ricordare duramente tutto. E diverrò memoria storica del gruppo. Sarò quella che, quando si riguarderanno le foto, avrà l’onere di raccontare la situazione e le motivazioni che hanno spinto suo marito ad indossare un portarotoli di carta igienica come copricapo. Sarò io a dover raccontare a tutti delle foto in pose mistiche. Quelle in pose sataniche. Quelle in pose finto sexy. Tutte cose che davvero non sono divertenti. Se non sei ubriaco.
Dal 2 poi, quando finalmente sono lasciata libera di essere triste e sola, rieccomi felice e piena di vita. Ed ecco infatti gli aspetti meravigliosi di queste improvvisamente dolcissime vacanze:
1) Video di Mariah Carey zoccolissima con Justin Bieber minorennissimo che sembra suo nipote frocio molestato dalla zia vecchia, il quale subirà un trauma irreversibile associato all’abito di babbo Natale, che insieme cantano un’orribile canzone natalizia che la zia vecchia cantava quando era giovane. Il tutto in uno sfavillante ed irreale centro commerciale delle fiabe in cui nevica (ma solo dove c’è Mariah), con tanto di alberi di natale con tantissime palle, pacchetti natalizi, pupazzo di neve finta, slitta, abito da babba natale troia indossato dalla zia vecchia, marchette continue alle multinazionali ed invito allo shopping compulsivo svolto in primis da Justin e dai suoi amichetti multicolor. E il povero Justin che già ha a che fare quotidianamente con le flotte di ormoni agguerriti delle adolescenti, in questa situazione si trova un po’ a disagio di fronte alla flotta di ormoni della Mariah che fa di tutto per essere seducente, ma che invece fa tantissima tristezza, tipo Baby Jane. Però lui alla fine le dice lo stesso che All I want for Christmas is you, anche se ha il carrello pieno di cose che non sono you. Chissà se Justin si è reso conto che quel puttanone di quarta categoria altro non è che lo specchio di quello che sarà anche lui quando gli ormoni delle adolescenti non solo lo ignoreranno, ma lo troveranno repellente. E allora cercherà pubblico tra le cougar quarantenni, si metterà un vestito da babbo natale sexy, cercherà di mostrare che ha ancora qualche cartuccia da sparare, come si suol dire, e metterà nel video una ragazzina minorenne, che allora sarà famosissima, e a cui lui ammiccherà tantissimo, sperando di essere ancora avvenente, ma suscitando solo l’indignazione della ragazza, del pubblico e anche delle forze dell’ordine che lo arresteranno per pedofilia. Più o meno. L’alternativa è che succeda tutto uguale, ma in versione gay.
2) L’irruzione nella mia vita di Tacchi Alti, ovvero la mia nuova migliore amica virtuale, che purtroppo conosco solo grazie ai suoi video di Youtube. Di lei non voglio dire niente, perché non serve. Lancio solo un appello: Tacchi alti ti prego continua a mettere i video su Youtube e ad essere te stessa perché sei un mito e io ti voglio bene. Non dare retta ai troll della rete. Nel mio cuore sei insieme a Laura Scimone uno dei miei angeli custodi che portano gioia e luce alla mia esistenza. Grazie. Anche Gemma ti voglio bene, ma meno, perché hai esagerato con quella cosa del suicidio.
3) Il calendario di Cronaca Vera
4) Gears of war 2. Sì, lo so che c’è già il 3 e che è vecchio, ma a noi frega un cazzo. Io e mio marito, armati fino ai denti, abbiamo fatto un culo così a migliaia di locuste, rimanendo chiusi in casa e appiccicati al divano per tipo 4 giorni consecutivamente, senza far altro che giocare. Facendoci venire le convulsioni e gli attacchi epilettici, alienandoci dalla realtà, perdendo completamente il senso del tempo e dello spazio, alimentando la nostra sete di sangue, violenza, guerra, armi e rivalsa sul prossimo, soprattutto se diverso da te. Questa per noi è una tradizione natalizia al pari del cotechino e delle lenticchie, che si ripete negli anni, ma di cui non ci stanchiamo mai.
5) Il molto cibo molto buono e le persone dell’amore delle persone dell’amore della mia vita e il mio cane dell’amore dell’amore del cane. Ma questo sempre. Quindi ok.